Ghiaccio, neve, freddo: nulla poteva impedirmi di andare avanti.
Era una missione suicida, probabilmente, ma non potevo mollare. Per il bene dell’umanità.
Qualche giorno prima mi era giunta una voce fidata: un pericolosissimo Rettiliano bicaudale si nascondeva tra i ghiacci della montagna e, di notte, scendeva a valle per fare razzia di bestiame e di umani infanti.
Per chi non lo sapesse, i Rettiliani bicaudali si differenziano dagli altri perché di fatto sono mastini assetati di sangue. Hanno un cervello più ridotto, pertanto sono meno intellegenti, ma hanno mandibole potentissime, artigli affilati e, soprattutto, due code irte di aghi velenosi. Come se non bastasse, dal sottocoda spargono spruzzi di umore mefitico e venefico, non appena si sentono braccati. Non si conoscono repellenti naturali o barriere efficaci contro i bicaudali, pertanto bisogna usare le maniere forti!
Nessuno in paese voleva salitre in quota, né far funzionare gli impianti di risalita: si era già sparsa la voce che una specie di “mostro delle nevi” stava infestando quelle zone. In cuor mio ero già più che sicuro che si trattasse di un maledetto Rettiliano bicaudale, per lo meno a giudicare dalle ferite riportate sul viso da alcuni paesani: erano state chiaramente provocare da aghi appuntiti che avevano infettato le carni.
Non fu facile convincere l’impiantista a fare azionare la seggiovia, tuttavia, dopo avergli promesso una bottiglia di quello buono, accese finalmente le macchine.
Ero solo: attorno a me solo neve, vento e ghiaccio. La giornata era tersa, il cielo limpido e, oltre i 2000 metri di altitudine, era confortevole potere ancora scorgere un cielo che non fosse malato e solcato da scie venefiche.
Mi incamminai verso la vetta: è costume dei bicaudali costruirsi rifugi in legno semisepolti dalle nevi in alta quota.
Dopo circa mezz’ora di cammino scorsi il primo segnale che qualcosa effettivamente non andava per il verso giusto: a fianco a me, tracciato nella neve fresca, campeggiava un simbolo che non lasciava spazio a congetture.
Più di una volta avevo scorto quel simbolo durante le mie missioni: Rettiliani, non c’era dubbio.
Mi feci circospetto e, in silenzio assoluto, proseguii verso la vetta.
A un tratto mi accorsi che non distante da me c’erano delle impronte, che segnavano il passaggio di qualcun altro non molto prima di me. Il problema è che si trattava di impronte umane. Che cosa poteva significare? Un avvertimento? Un’imboscata? Un turista che aveva smarrito la via per il ritorno? C’era un solo modo per saperlo: proseguire!
Minuti di silenzio assordante trascorrevano accompagnando la mia camminata affaticata: muovendomi in mezzo alla neve alta, seguivo la traccia di quelle impronte umane che segnavano un sentiero verso la vetta. Ancora 15 buoni minuti di nulla, poi un altro segno chiarissimo: nella neve fresca qualcuno o qualcosa aveva tracciato un secondo avviso.
“Rept”, che stava per “Reptilians”. Ormai ero sicuro: qualcuno prima di me si era avventurato sulle tracce di un maledetto Rettiliano. Di chi si trattava? Di un altro cacciatore? Di un semplice pazzo curioso in cerca di una storia da raccontare alla propria fidanzata? Con cento e più domande che mi frullavano in testa, proseguii sempre più motivato nella direzione indicata dalla freccia tracciata sotto il segnale, fino a che, oltrepassata l’ennesima duna di ghiaccio, l’orrore si mostrò a me in tutta la sua crudezza.
(Continua e finisce)
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